Implementare supporto ai conflitti nei gruppi (traduzione)

Segnaliamo questa risorsa per la costruzione di strutture di supporto ai conflitti nei gruppi, per esempio procedure per parlarne apertamente, linee guida per rivolgersi ad una mediazione esterna, protocolli di mediazione interni…

Qui la definizione di CONFLITTO che viene intesa:

Il conflitto comprende tutte le situazioni in cui vi sono incongruenza, disallineamento, disaccordo, dissenso o tensione. Il conflitto non
necessariamente implica danno, violenza o disagio;
il conflitto può essere gioioso, eccitante e di crescita e comunque
e richiedere un sostegno o un processo per raggiungere gli obiettivi o i risultati desiderati dai partecipant, per raggiungere gli obiettivi o i risultati desiderati

mi sembra molto longimirante e mette anche in evidenzia alcuni problemi comuni! Qui il libro completo:

https://www.lunanh.com/post/creating-conflict-infrastructure-a-group-workbook

Traduco la parte riguardo L’implementazione delle Linee Guida in Caso di Conflitto

Quindi ponete caso che siete un gruppo, avete già affrontato alla belle e meglio diversi conflitti, finalmente siete arrivate a scrivere una procedura e probabilmente avete anche un gruppo che se ne occupa.. bene.. e.. ?!?

Parte 4 Fase dell’implementazione

A questo punto i piani sono stati definiti. Collettivamente, avete
i processi e i sistemi che utilizzerete per affrontare i conflitti, chi può accedervi e quali tipi di conflitti e problemi che questi sistemi possono o non possono affrontare.
Se avete deciso di avere politiche/protocolli scritti, questi sono stati redatti e approvati in base ai vostri processi decisionali interni.
Se avete deciso di offrire interventi o processi di conflitto
(come la risposta alle crisi, i circoli di guarigione o la mediazione),
avete fatto i preparativi per essere in grado di fornirli e sapete chi risponderà e come lo farà.
Se state dedicando risorse specifiche per affrontare i conflitti, tali risorse sono state assicurate e sono pronte per essere utilizzate.
State per mettere in moto le ruote, quindi tutto ciò che resta da capire (e da fare) è…..

4.1
Come stiamo condividendo con le persone e le comunità che
politiche/protocolli sono ora attivi?

Perché i mezzi di condivisione delle informazioni sono importanti: troppo spesso le organizzazioni sviluppano politiche che i membri  si aspettano di seguire (ad esempio, gli accordi per comunicare direttamente sui
conflitto interpersonale o di presentare un rapporto alla leadership), ma queste politiche non vengono mai chiarite alle persone che impattano.

Considerate la possibilità di comunicare in un formato diverso da un lungo thread di e-mail, ma con un allegato pdf o attraverso un canale slack/sinal/telegram/IRC/… – potrebbe essere utile organizzare una cena o una celebrazione dedicata ad aver finalmente raggiunto questa pietra miliare per
affrontare il conflitto di petto, dove le politiche vengono spiegate, le speranze di impatti positivi sull’organizzazione sono chiarite e il coinvolgimento con le politiche è incoraggiato ed accolto con favore.

4.1.1
Come si può accedere a queste politiche/protocolli in forma
per iscritto, a cui fare riferimento in caso di necessità?

Perché l’accesso è importante: le politiche possono essere facilmente dimenticate e poi vengono riportate alla luce solo dopo che si è verificata una crisi e qualcuno viene rimproverato per per non aver seguito il protocollo.

Considerate di includere documenti scritti facilmente leggibili e facilmente leggibili e comprensibili in più punti in cui i membrx sono portati a guardare quando hanno bisogno di informazioni su ciò che possono o devono fare in caso di conflitto (ad esempio, il sito web dell’organizzazione, il canale IRC, il manuale, ecc ) Se si tratta di un’organizzazione multilingue o se si sa che nell’organizzazione ci sono persone nell’organizzazione che non possono leggere o vedere documenti digitali, assicuratevi che questi materiali siano accessibili a tutti.
Se ci sono procedure da seguire, considerate la possibilità di creare illustrazioni visive di flussi di lavoro e processi che siano di facile comprensione.

4.1.2
Come e quando rifletteremo su queste politiche e protocolli, per apportare eventuali modifiche?

Perché la riflessione è importante: inevitabilmente ci saranno dei buchi nelle politiche create quando le cose erano tranquille. Sorgeranno nuove dinamiche e situazioni che non si adattano a ciò che avete creato. Oppure, scoprirete che le politiche producono un risultato diverso da quello che avevate originariamente previsto. Assicuratevi di dedicare un tempo specifico (3 mesi, 6 mesi, 1 anno, ecc.) per rivedere come stanno andando le cose, vi risparmierà il mal di testa di cercare di costringere le persone a ad adattarsi alla politica, piuttosto che la politica ad adattarsi alle esigenze e alle esperienze delle persone.

4.2 Quali mezzi utilizziamo per comunicare con le persone e le comunità, che risorse e processi di conflitto sono disponibili? E quali
informazioni stiamo condividendo?

Perché la comunicazione è importante: le persone che non hanno esperienza di intervento sui conflitti da parte di terzi (mediator*, supporto alla crisi, facilitator*) è probabile che siano un po’ sospettose, caute o ansiose di accedere a questi supporti.

Inoltre, le persone che hanno esperienza possono avere solo un’esperienza oppressiva (ad esempio, la mediazione o risposta alla crisi da parte della polizia). Sappiate che le persone possono partire da una situazione di sfiducia.

Non solo è importante assicurarsi che le persone che possono accedere ai vostri supporti sappiano che esistono, è importante condividere
informazioni che possano farle sentire con sicurezza e fiducia nell’utilizzo di tali supporti.

Ad esempio, considerate condividere immagini e biografie di chi si presenterà, con la sua formazione ed esperienza;  i valori/principi che vengono utilizzati per guidare il supporto; i diritti/protezioni delle persone che accedono al supporto (come confidenzialità, autodeterminazione); e l’essere molto esplicite sulle limitazioni (come ad esempio chi non può accedere ai servizi o  ai problemi che non siete in grado di affrontare e perché).

4.2.1 In che modo le persone si rivolgono a noi per accedere a tali risorse e processi?

Forse avete già discusso alcune di queste opzioni nel paragrafo 3.2.5. Qui, considerate queste scelte mentre le implementate. Ad esempio, se state
offrendo mediazioni, come si fa a richiedere un mediatore? Per e-mail? Per telefono?
Tramite un modulo online? Ci sono documenti da compilare? Possono comunicare anonimamente o in modo confidenziale se vogliono solo informazioni?
Ridurre le barriere all’accesso dovrebbe essere l’obiettivo di questo processo e assicurarsi che durante l’implementazione le cose che le cose funzionino nel modo desiderato/previsto (e di apportare modifiche in caso contrario).

4.2.2 Come e quando rifletteremo su come i mezzi di accesso alle risorse e ai processi funzionano per le persone che ne hanno più bisogno?

Perché la riflessione è importante: come sopra, è probabile che ci si imbatta in problemi in cui le persone non si fanno sentire o in cui il modo in cui le cose sono impostate causa problemi evidenti (difficoltà a mantenere la riservatezza, sovraccarico per la persona incaricata dell’accoglienza, le persone dicono di non sapere come avviare le cose, ecc.)

Per esempio, quando ho iniziato a praticare avevo solo un’opzione di posta elettronica con un modulo standard.
Dopo un po’, è diventato chiaro che le persone esitavano a inviare un’e-mail alla cieca con i loro dati personali. Quindi, ora offro un’assunzione virtuale
(senza documenti), un’e-mail o un modulo online, in modo che le persone possano scegliere l’opzione che fa per loro.
Fissare un orario specifico per tracciare i dati sulle richieste ricevute rispetto alla vostra percezione di ciò che le persone vogliono/bisognano, aiuterà ad adeguarsi a ciò che le persone sentono effettivamente a proprio agio. ( Setting a specific time to track data on the requests you’ve received vs. your perception of what people want/need, will help to adjust to what folks actually feel comfortable with. )

4.3 Qual è la nostra capacità iniziale di di accogliere i casi?

Perché la capacità iniziale è importante: All’inizio di ogni nuovo progetto/programma c’è una curva di apprendimento, e l’onere emotivo/intellettuale del lavoro sui conflitti è sempre più significativo all’inizio. Ci vorrà un po’ di tempo per orientarsi. Considerate di aumentare
molto lentamente, con tutto il tempo necessario per riflettere e cambiare
e modificare le cose man mano che imparate a conoscervi meglio come
operatori, la comunità che riceve il supporto e i problemi che si presentano.

Il burn-out può portare a perdita di fiducia, se si scopre che i facilitator*/interventist* sono irreperibil* o non sono attrezzat* per rispondere alle persone con cui lavorano.

È molto molto difficile tornare indietro da una perdita di fiducia –quindi proteggete le vostre relazioni, anche quando sembra urgente affrontare le crisi immediate.

4.3.1 Come facciamo a sapere che siamo pronti ad affrontare di più?

Perché la prontezza è importante: Spesso si pensa a un “aumento di scala” in termini di tempistica, come ad esempio “Nel primo anno prenderemo 10 casi e nel secondo ne prenderemo 20”.
Questa è mentalità capitalistica, in cui il “successo” è definito da una crescita quantificabile.
Pensate invece alla scalata in termini di salute relazionale.
Ad esempio, “saprò di essere pronto per altri casi quando: mi sento sicuro del mio attuale carico di casi, mi sento carico di energia,  piuttosto che svuotato dalle mie sessioni/interventi, e le persone con cui lavoro si sentono fiduciose in me e nella mia reattività”.

E magari considerare anche alcuni limiti, per esempio, “non accetterò altri casi se questo significa che devo lavorare/facilitare/intervenire dopo le 19 o nei fine settimana”.
Capire questo prima del tempo e comunicare tra di noi quali sono questi punti di riferimento, aiuterà a evitare risentimenti, pesi e burn-out.

4.3.2 Come sapremo e comunicheremo che  abbiamo raggiunto il nostro limite?

Rivedete la conversazione del punto 3.2.9.1. Come ci si sente in termini di
in termini di scalare verso l’alto o verso il basso all’inizio del lavoro?
Ci sono ulteriori sfumature?

 

Gestione non violenta dei conflitti

fonte: https://www.autistici.org/azione/consenso/gestione_nonv_conflitti.html

Saggio breve sulla gestione di gruppo dei conflitti.

Il Conflitto è uno stato della Relazione caratterizzato dalla presenza di un Problema a cui si associa un Disagio.

LA GESTIONE NONVIOLENTA DEI CONFLITTI

1. RI/CONOSCERE IL CONFLITTO PER GESTIRLO

Per gestire un conflitto devo per prima cosa riconoscerlo, cioè devo saperlo cogliere in modo rapido e chiaro. Poi devo conoscerlo, nel senso che solo attraverso la buona comprensione delle sue cause posso agire in modo efficace. Da ciò nasce la domanda: che cos’è il conflitto? Ovvero: io, come lo riconosco un conflitto?

Cos’è che mi consente di dire ‘questo è un conflitto’ e quello non lo è? C’è qualcosa che, come fosse un minimo comune denominatore, una sorta di ingrediente fondamentale, è presente in ogni tipo di conflitto, da quello intrapersonale a quello internazionale?

Dalla risposta a queste domande scaturisce la seguente definizione. Essa è solo una tra le tante e, come ogni definizione, va presa con senso critico, ricordando che il linguaggio usato ci può liberare o imprigionare per quanto riguarda la comprensione della realtà. Infatti i concetti che usiamo non sono la realtà, ma una sua descrizione , e il rapporto tra concetti e realtà è simile al rapporto tra una “mappa e il relativo territorio”. Perciò conviene costruirsi delle buone mappe!

Il Conflitto è uno stato della Relazione caratterizzato dalla presenza di un Problema

cui si associa un Disagio.

2. IL CONFLITTO È UNO STATO DELLA RELAZIONE

  Noi non siamo mai soli, siamo sempre in relazione con qualcuno o qualcosa. L’esistenza è relazione, movimento, trasformazione. Pertanto il conflitto è sempre legato ad una determinata relazione (con un amico o un nemico, con la vita o con una parte di se stessi); ed essendo la relazione qualcosa di dinamico, in continua trasformazione, un conflitto nel tempo può aumentare o diminuire d’intensità, risolversi in modo definitivo, oppure temporaneo. Ai nostri fini è importante distinguere due dimensioni della relazione: una interiore, con se stessi, che possiamo chiamare ‘personale, e una esteriore, con gli altri, che chiamiamo ‘sociale’. Tale distinzione ci permette di cogliere una dimensione personale e una dimensione sociale del conflitto, dimensioni che sono intimamente connesse, ma anche funzionalmente diverse tra loro. La dimensione sociale poi, varia dal livello micro (famiglia) a quello macro (Stati), attraversando il livello meso (quartiere, città, ecc). Non è assolutamente possibile gestire positivamente i conflitti a livello sociale senza tenere conto della dimensione interiore o personale del conflitto.   Sulle distinzioni tra i cosiddetti livelli micro, meso e macro del Conflitto (e più in generale come buon testo teprico) vedi “I conflitti. Introduzione a una teoria generale.” di E. Arielli e G. Scotto, ed. Bruno Mondadori, pag. 15.

3. DISTINGUERE I PROBLEMI DAI CONFLITTI

Generalmente per conflitto s’intende “una incompatibilità (o scontro, divergenza, opposizione, ecc.) tra scopi (o interessi, valori, opinioni, bisogni, ecc.) perseguiti da attori diversi (persone, gruppi, Stati, ecc.)”. Ciò è ben espresso anche dall’etimologia della parola “conflitto”: cum fligere, cioè battere contro.

Per un’ampia trattazione del conflitto e delle sue definizioni, vedi anche A. L’Abate “Conflitto, consenso e mutamento sociale: introduzione a una sociologia della nonviolenza”, Franco Angeli editore. Vedi anche J. Galtung, uno dei massimi rappresentanti a livello mondiale della peace-research, “La trasformazione nonviolenta dei conflitti” ed. EGA., opera molto importane perché è il primo manuale per la gestione nonviolenta dei conflitti pubblicato e adottato ufficialmente dall’ONU (EGA edita una versione ridotta).

Questo modo di vedere però non mette in luce la componente dolorosa del conflitto, che pure sembra essere riconosciuta da tutti quando si entra nel vivo dei conflitti. Cogliere bene la componente di dolore, sofferenza, disagio, tipica del vissuto conflittuale, è essenziale perché essa influisce in modo sostanziale sulla dinamica del conflitto. Perciò, al fine di una gestione positiva dei conflitti, ci sembra più funzionale una definizione (mappa) in cui tale componente sia ben visibile. Proviamo allora a riassumere e chiarire cosa intendiamo precisamente con i termini usati.

Per problema  qui intendiamo tutto quello che all’interno di una relazione o di una situazione (dal livello a micro a quello macro) percepiamo come scontro, incompatibilità, divergenza, contrasto, opposizione, ecc, che può essere legato a qualsiasi cosa, cioè a diversità di interessi, bisogni, opinioni, valori, ecc, senza che a tutto ciò si associ sul piano esperienziale una qualche forma di disagio. Un modo molto semplice ed efficace per individuare se ci troviamo di fronte a un problema è domandarsi “accetto quello che sta accadendo, o che potrebbe accadere?”. Nella misura in cui rispondiamo affermativamente vuol dire che stiamo vivendo un problema. Questa consapevolezza, che potrebbe sembrare una banalità, un fatto scontato, costituisce un momento fondamentale nella gestione del conflitto. È evidente che i problemi sono qualcosa che affrontiamo in continuazione: piccoli o grandi che siano costituiscono la materia prima del nostro agire, tanto da arrivare a dire che “i problemi sono il sale della vita”. Questo finché ad essi non si associa il disagio, la sofferenza: allora diventano conflitti, e le cose non sono più così attraenti.

Per disagio intendiamo quel vissuto soggettivo, rappresentato da una vasta gamma di sensazioni, sentimenti ed emozioni, che dentro noi percepiamo come più o meno spiacevole, doloroso e fonte di sofferenza. Dunque ci troviamo di fronte non più a un problema, ma a un conflitto, dove è assai più impegnativo trovare una soluzione positiva, costruttiva, vinci/vinci. Qui è importante notare la diversità tra il disagio strettamente fisico e quello psicologico, perché non sono la stessa cosa: per es. posso star male fisicamente, ma essere di un buon umore, e viceversa non avere problemi fisici ed essere di umore nero. Quello che qui c’interessa maggiormente al fine di una gestione positiva del conflitto è il disagio psicologico.

Nella nostra mappa dunque il conflitto è un aggregato costituito sempre da due componenti: il problema e il disagio.

Riconoscere senza confondere questi due componenti ci consente di gestire i conflitti in modo efficace e costruttivo.

4. NEL CONFLITTO SI STA MALE

Se ammettiamo che il conflitto è un aspetto naturale dell’esistenza umana, allora è ovvio che per costruire la pace e la giustizia nelle relazioni bisogna per forza di cose passare attraverso la gestione sana e costruttiva del conflitto. Allora il primo fondamentale passaggio evolutivo rispetto alla visione comune del conflitto è che per gestire i conflitti in modo costruttivo devo saper stare costruttivamente nel conflitto

.Non è finita. Per arrivare al cuore della questione dobbiamo fare ancora un altro passo, meno scontato del precedente, seppur logicamente implicito, e cioè per stare costruttivamente nel conflitto devo saper stare costruttivamente nel disagio.

Quest’ultimo passaggio non è roba da poco perché porta al centro dell’attenzione il nostro rapporto (a livello personale e sociale) con la sofferenza.

Ed infatti l’enorme difficoltà che s’incontra nello sviluppare un atteggiamento positivo verso il conflitto risiede proprio in ciò: si ha una profonda paura del conflitto perché sia ha una profonda paura di star male, di soffrire. Così accade che gestiamo i problemi per gestire il nostro disagio.

Per es. la richiesta di una maggiore presenza delle forze dell’ordine nelle città, di barriere ai confini, o di armi più potenti, risponde al bisogno di calmare ansie, angosce e paure personali e collettive. Si dice e si crede che con ciò si risponda al bisogno di sicurezza, ma di fatto, come è logicamente dimostrabile,  i problemi si complicano su scala maggiore e la sicurezza diminuisce. Un genitore ansioso cerca di controllare i suoi figli in modo da iper-proteggerli, causando però dei notevoli problemi di crescita ai figli stessi. Lui dice che lo fa per i figli, ma in realtà sta gestendo il disagio legato alla sua ansia. Le drammatiche conseguenze di ciò sono sotto gli occhi di tutti. Il fallimento di questa comunissima strategia di gestione del conflitto (comunissima perché si apprende, si agisce e si trasmette inconsapevolmente), che invece di diminuire la sofferenza e risolvere i problemi li aumenta moltissimo, si fonda su tre errori : il primo errore sta nel non riconoscere la sostanziale differenza e il rapporto che intercorre tra disagio e problema; il secondo errore sta nel rapportarsi in modo errato, disfunzionale, alle emozioni nostre e altrui; il terzo errore, il più grave, quello che sembra condurre all’origine di tutti i conflitti, riguarda la nostra ignoranza di fondo circa la natura della sofferenza e di conseguenza il nostro errato rapporto con essa.

  Sul rapporto tra sofferenza, violenza e nonviolenza (e sulla nonviolenza in generale), segnalo Gandhi “Teoria e pratica della nonviolenza”, a cura di Giuliano Pontara, Edizioni Einaudi. Sul rapporto tra violenza e sofferenza, sui meccanismi di propagazione della violenza e sulle sue radici, che hanno molto a che fare con l’origine dei conflitti, segnalo anche “Per uscire dalla violenza”, Ed. Gruppo Abele, di J. Sémelin. Infine sulla difficoltà a riconoscere sentimenti ed emozioni nei conflitti (e non solo), tanto che alcuni autori propongono programmi di ‘alfabetizzazione emotiva’, vedi “L’intelligenza Emotiva”, D. Goleman. Ed. Feltrinelli.

A questo punto si dovrebbe comprendere meglio perché il cambiamento di atteggiamento oggi tanto auspicato e predicato verso il conflitto (da un atteggiamento negativo che vede il conflitto come qualcosa di sbagliato, violento, brutto, a un atteggiamento positivo che vede il confitto come opportunità di crescita personale e sociale), è in pratica così difficile a farsi: si tratta niente meno che di un cambiamento di mentalità e di cultura nei riguardi della sofferenza. Una vera rivoluzione, che investe in pieno i temi della democrazia e della partecipazione: un’autentica partecipazione implica l’accettazione del conflitto, il rischio di perdere il controllo e di una buona fetta di potere da parte di coloro che ce l’hanno. La costruzione di contesti sociali costruttivi (dal micro al macro livello) deve anzitutto riconoscere il conflitto come stato o luogo naturale della relazione; ciò significa che deve sempre facilitare l’emersione e l’esplicitazione sia del disagio, sia dei problemi (cioè i due componenti fondamentali del conflitto), sapendo che il disagio si gestisce in un modo, i problemi in un altro.

5. IL RAPPORTO TRA DISAGIO E PROBLEMA

Tra disagio e problema c’è una dinamica circolare: il disagio alimenta i problemi, i problemi alimentano il disagio . Quando sono di umore cattivo (nervoso, ansioso, depresso) tendo a percepire anche i piccoli problemi come ostacoli opprimenti; o addirittura arrivo letteralmente a inventare dei problemi, semplicemente allo scopo di scaricare le tensioni legate al mio disagio (naturalmente ciò avviene inconsapevolmente). D’altra parte un problema, che magari si ripete nel tempo e al quale non riesco a dare una buona risposta, può mutare il mio stato di serenità e abbassare la soglia della mia capacità di tolleranza, portandomi a percepire (e gestire) quel problema in modo alterato. Più siamo agitati, nervosi, ansiosi, irati, risentiti, stressati, insomma, più c’è disagio in noi, e più i problemi sono vissuti male, percepiti male e gestiti male. E questo ci porta inevitabilmente, inconsapevolmente, a gestire i problemi per gestire il disagio.

Questa dinamica, facilmente osservabile a livello micro (interpersonale), vale in tutto e per tutto anche per la dimensione macro sociale. Ecco perché trasformare i semi della paura e dell’odio è la migliore opera di prevenzione della violenza a tutti i livelli, dalla famiglia alla scuola, dal mondo del lavoro a quello della politica (per esempio le guerre e le oppressioni lasciano potenti semi di paura, odio e rancore che, se non vengono adeguatamente trattati nel cosiddetto tempo di pace, quando si creeranno le condizioni col presentarsi di determinati problemi sociali, germoglieranno di nuovo). Gestire positivamente il disagio è dunque un passaggio chiave che si fonda su una rivoluzione logica: gestire (positivamente) il disagio per gestire (positivamente) i problemi.

Assomiglia al passaggio, pure questo rivoluzionario, da “si vis pacem para bellum” a “si vis pacem para pacem”.

6. INDICATORI DI CONFLITTO

A questo punto possiamo considerare il disagio come un campanello d’allarme che ci consente di riconoscere prontamente l’esistenza del conflitto, cosa fondamentale dal momento che per  gestire i conflitti bisogna anzitutto riconoscerli. E infatti, a livello macrosociale, le varie forme di disagio sono tenute in gran conto e rese oggetto di ricerca in quanto ottimi indicatori per prevenire e gestire i conflitti. Questa, dal punto di vista personale, può apparire invece un’osservazione banale, ma se si va a vedere con attenzione e onestà nel nostro vivere quotidiano, in genere si scopre che la gran parte dei nostri conflitti ci passa sotto il naso. (A fine giornata, quanti conflitti abbiamo vissuto? E quanti ne abbiamo gestiti, consapevolmente, in modo positivo o in modo semplicemente ‘diverso’ dal solito?). Il punto è che le migliori intenzioni, supportate anche da una buona preparazione teorica su cosa fare per gestire i conflitti, si perdono nella nebbia fitta dell’abitudine, della confusione mentale, dell’identificazione con le emozioni, per cui viviamo i conflitti senza rendercene conto -e forse viviamo così anche le cose belle e piacevoli della vita. Riconoscere prontamente la nostra tensione interna (irritazione, frustrazione, preoccupazione, offesa, disgusto, ecc) c’invita a porci, secondo la nostra mappa, una domanda fondamentale: qual è il problema? Però prima di affrontare il problema è necessario fare i conti col disagio, soprattutto quando è forte.

7. LA GESTIONE DEI CONFLITTI

Quasi tutti gli uomini muoiono per i rimedi che usano più che per le loro malattie.(Molière)

In base alla nostra mappa sappiamo che in una situazione conflittuale dobbiamo saper riconoscere prontamente le componenti del disagio e del problema.

La gestione positiva del disagio è il primo passaggio per la gestione positiva del conflitto, perché non è possibile affrontare alcun problema quando di mezzo ci sono forti sentimenti o emozioni, i quali diventano il ‘vero problema’.

7.1 Gestire il disagio

Gestire positivamente il disagio non vuol dire cercare di eliminarlo. Anzi, se lo vogliamo eliminare la situazione peggiora. Per gestire positivamente il disagio è necessario prendersene cura dentro noi, affiancando ad esso qualcosa di positivo che è in noi. Ciò avviene tramite un lavoro di attento riconoscimento e profonda accettazione del disagio stesso. In pratica si tratta di creare, primariamente attraverso l’esercizio della consapevolezza, uno spazio interiore di sufficiente calma e fiducia che ci permetta di osservare bene sia le sensazioni fisiche degli stati emotivi che ci abitano in certi momenti, sia i pensieri che vi si associano e che si producono quasi indipendentemente dalla nostra volontà seguendo schemi fissi e ricorrenti. Così facendo il disagio semplicemente si trasforma e il momento presente si percepisce con occhi diversi. Si i ntravvedono nuove possibilità di azione, più rispondenti alla situazione reale, e ciò porta ad agire in modo positivo. Non si tratta di far sparire la rabbia o la paura dalla nostra esistenza (ammesso che sia possibile), ma di saperle accogliere in uno spazio interiore sufficientemente ampio per cui può avvenire qualcosa che sembra quasi incredibile: il disagio continua ad esserci, ma è diverso da prima e… non mi mette a disagio! Come dice Charlotte Joko Back, famosa maestra zen statunitense, “in me c’è la rabbia, ma non sono arrabbiata; c’è la paura, ma non sono impaurita”. E’ come mettere un cucchiaio di sale in un bicchiere d’acqua oppure in una grande vasca: la quantità di sale è la stessa (il disagio), ciò che cambia è l’ampiezza del contenitore (noi stessi, il nostro spazio interiore), e di conseguenza anche il sapore dell’acqua sarà ben diverso (cioè i risultati a livello personale e sociale).

La disidentificazione dalle proprie emozioni (che non significa non provare emozioni, bensì mantenerle alla distanza giusta come quando si legge un testo scritto: né troppo vicino né troppo lontano dagli occhi), apre spazi di libertà e creatività nell’azione prima impensabili, portando a una conoscenza diretta e più profonda di noi stessi e di ciò che chiamiamo realtà.

Accettazione e cambiamento: un apparente paradosso. Signore, dammi la forza di cambiare le cose che posso cambiare; dammi la forza di accettare le cose che non posso cambiare; dammi la sapienza di distinguere le une dalle altre.

La gestione del disagio si fonda sulla capacità di accettazione del nostro mondo interiore, del nostro vissuto. A livello sociale è la stessa cosa: serve una cultura che sappia aprirsi alla sofferenza, che sappia accettarla per poterla trasformare positivamente.

Il paradosso allora consiste in questo: come faccio ad accettare qualcosa che voglio cambiare? Infatti se c’è qualcosa che voglio cambiare (qualunque cosa sia, perché vedo che è ingiusta, pericolosa, dannosa per me e/o per gli altri) è ovvio che tale cosa ‘non l’accetto’, e dunque l’accettazione di cui si parla non può valer sempre e per tutto. Per risolvere l’apparente paradosso è necessario fare luce su alcuni aspetti della nostra esperienza.

L’oggetto dell’accettazione: cosa accettare e cosa non-accettare

In pratica ci sono un’infinità di cose che naturalmente non accettiamo, dentro noi e fuori di noi. E come ci ricorda la famosa preghiera all’inizio di questo paragrafo, è estremamente importante capire cosa è bene accettare o non-accettare. In proposito abbiamo un chiaro punto di riferimento: distinguere la persona dal suo comportamento; scindere i problemi dalle persone.

Sul piano dei comportamenti è infatti naturale e giusto non-accettare tante cose (per esempio atti che producono a noi o ad altri dei danni), ma tale non-accettazione del comportamento non è detto che debba estendersi alla persona nella sua totalità. È possibile non identificare ciò che la persona fa con ciò che è, con la sua complessa umanità, la sua inconoscibile storia, il suo potenziale e insondabile divenire? Sì, è proprio questa distinzione, tra persona e comportamento, che permette ad alcuni di dire “combatto il peccato e non il peccatore”, e ad altri di dire “scindere i problemi dalle persone”, senza per questo essere presi per stupidi o pazzi.    Per la prima citazione vedi Gandhi, op. cit.; per la seconda citazione vedi R. Fisher e W. Ury, docenti alla Harvard University, tra i massimi esperti al mondo di negoziazione  e per altro estranei alla tradizione nonviolenta, nel loro famosissimo e interessantissimo testo “l’arte del negoziato”, Ed. Arnoldo Mondadori. Per una profonda trattazione del tema dell’accettazione, dal punto di vista spirituale e psicologico, suggerisco “La tranquilla passione”, ed. Ubaldini, di C. Pensa

Quindi, nell’approccio positivo ai problemi e conflitti, c’è un ‘oggetto’ che va sempre e comunque accettato: la persona, con la sua storia, la sua esperienza, il suo futuro. Questa accettazione in sostanza è un riconoscere l’altro in quanto ‘essere umano’, e ciò non presuppone affatto che io debba essere d’accordo con le sue idee o debba condividere la sua storia. Qui si tratta di sviluppare un atteggiamento che tende al riconoscimento positivo e incondizionato dell’altro (e di noi stessi!) che non può che fondarsi sulle qualità dell’amore. (È un parolone, certo, ma possiamo farne a meno? E se ne facciamo a meno, perché gli esempi in tal senso non mancano, che prezzo paghiamo?).D’altro canto c’è un ‘oggetto’ che non va sempre accettato: il comportamento.

Infatti, come dicevamo, il comportamento a volte può essere giusto accettarlo e altre volte assolutamente no. Noi ci danniamo la vita accettando cose che invece potremmo e dovremmo cambiare (“che ci volete fare, la povertà c’è sempre stata e sempre ci sarà!”) e non-accettando cose che in effetti non siamo in grado di cambiare (“odio l’idea d’invecchiare!”). Fare degli esempi su questo punto è complicato: ogni relazione e inserita in un contesto spazio-temporale, psicologico e sociale che rende unica ogni situazione ed estremamente difficile dire con certezza cosa e quanto sia giusto accettare per una persona/gruppo/sisetma. Abbiamo dei punti di riferimento, ma siamo costretti a navigare a vista. Si tratta qui di sviluppare una capacità di discernimento, di visione profonda e intelligente, fondata sulla consapevolezza.

L’amore nella politica: il vero volto dell’etica.

A questo punto la domanda potrebbe essere: ma è davvero possibile non-accettare il comportamento dell’altro e al tempo stesso accettarlo in quanto essere umano? È possibile che la non-accettazione di un comportamento ingiusto o addirittura criminale sia agita con una qualità positiva – che cioè abbia in essa una certa misura di amore –  verso coloro che lo commettono? Che ciò sia possibile è sicuro e innumerevoli volte testimoniato nella storia; che ciò sia anche facile è un altro discorso, ma di certo non è cosa riservata a pochi eletti. Invero è presente nella nostra vita molto più di quanto pensiamo. Ad esempio è ciò che avviene quando agiamo con fermezza per impedire a un bambino di fare qualcosa di dannoso (per noi, per lui, o per altri) e, al contempo, manteniamo nei suoi confronti un sentimento/atteggiamento di sincero interesse per i suoi bisogni, di benevola e intelligente comprensione, di rispetto e amicizia, di non rimprovero. Certo, agire similmente con gli estranei o addirittura verso i nemici è cosa ben diversa ed effettivamente difficilissima; ma il punto è rendersi conto delle potenzialità di questa straordinaria e benefica forza che già possediamo e che quindi possiamo sviluppare esattamente come ogni altra nostra capacità. Ancora una volta si tratta di sviluppare sensibilità e di rompere le gabbie mentali che ci portano a pensare in termini di tutto o niente: non è che la qualità-forza dell’amore o ce l’abbiamo al cento per cento oppure non ce l’abbiamo per niente, è ben vero invece che ce n’è sempre un po’ in noi e negli altri, e su quella conviene investire.

Di grandissimo interesse è in proposito l’esperienza di riconciliazione in Sudafrica: vedi “Verità senza vendetta” di M. Flores, ed Manifestolibri.

7.2 Gestire i problemi. Nel perseguire l’impossibile rendiamo irraggiungibile il realizzabile.

Avviato il primo passo, una sufficiente gestione positiva del disagio, possiamo affrontare il problema. In effetti la gestione del disagio comporta spesso, in qualche misura, anche la gestione del problema (per es. a volte è sufficiente calmare un’ansia per rendersi conto che la situazione è assai meno problematica di come all’inizio appariva).

Cos’è un problema? Mi trovo di fronte a un problema ogni qual volta nella relazione (con me stesso, o con gli altri, o con le cose) c’è qualcosa che secondo me non va come dovrebbe andare e, nello stesso tempo, desidero portare un cambiamento: c’è qualcosa che non accetto e lo voglio cambiare. Se restringiamo il campo alle sole relazioni umane la formula potrebbe essere la seguente: tu fai qualcosa che non dovresti fare / tu non fai qualcosa che dovresti fare

(laddove il tu si può sostituire con tutti gli altri pronomi). Questo è un modo rapido ed efficace per individuare la presenza di problemi, valido anche a livello macrosociale. È come un campanello d’allarme che ci mette all’erta, ma per passare alla gestione del problema abbiamo bisogno di entrarci dentro. In proposito la porta di accesso consiste nel chiarire alcuni elementi fondamentali:

cosa non accetto del comportamento dell’altro?

  • Precisamente, cosa fa o dice che non accetto? che effetti ha su di me quel comportamento?
  • Concretamente, quali fastidi, difficoltà, danni mi causa (o, in via ipotetica, potrebbe causarmi)?
  • che sentimenti mi provoca quel comportamento?

    La risposta a queste domande rappresenta la gestione della dimensione interiore del problema-conflitto, da cui dipende la gestione della dimensione sociale del problema-conflitto (che, come vedremo, si gioca sul piano della comunicazione). Dopo esser passati attraverso questa porta, possiamo incamminarci verso il cuore dei problemi. Il primo passo è riformulare il problema in termini di bisogni : quali sono i miei (tuoi, nostri, ecc) bisogni in questa faccenda? Quali bisogni desidero salvaguardare, proteggere, soddisfare? Queste domande ci permettono di avviare il processo di trasformazione e risoluzione dei problemi che tecnicamente viene chiamato ‘problem solving’. Il problem solving si svolge generalmente in sei fasi, più una fase zero: 1) ridefinizione del problema in termini di bisogni; 2) escogitare idee di soluzione; 3) valutare pro e contro di ogni soluzione; 4) scegliere la soluzione che sembra migliore; 5) implementare la scelta (cioè stabilire il piano di attuazione: chi fa cosa, quando come, ecc); 6) prevedere i criteri e i tempi per la verifica dei risultati ottenuti. La fase zero riguarda le premesse relazionali e contestuali che consentono al processo di avviarsi (per es. se le parti che vivono il problema sono già in forte conflitto, dovranno come prima cosa costruire quel minimo di fiducia e conoscenza del processo indispensabili per collaborare nei vari passaggi del problem solving).

    Esistono diverse tecniche cosiddette di Problem solving, ma tutte attraversano le stesse fasi anche se vengono chiamate in differenti modi. Personalmente uso il metodo Gordon, vedi ‘Leader efficaci’ T. Gordon ed. La Meridiana.

    Non c’è problema! Ok: ma chi stabilisce che un problema è un problema? Esistono problemi oggettivi? La percezione di un problema è legata a un insieme di fattori che in ultima analisi sono soggettivi, per cui il problema esiste nel momento in cui il soggetto lo riconosce.

    Pertanto non ha molto senso parlare dell’esistenza oggettiva dei problemi, così come non ha senso parlare della non esistenza oggettiva dei fantasmi a uno che li vede e ne è terrorizzato. Forse si può anche dire che in certi casi i problemi esistono solo nella testa delle persone che li hanno, ma bisogna pure ammettere che quei problemi non restano affatto rinchiusi in quelle teste, bensì escono e possono condizionare pesantemente la vita di chi è in relazione con quelle persone – e non solo, come testimoniano i quotidiani fatti di cronaca nera. Da quanto detto deriva una regola di comportamento che svolge un’importantissima funzione preventiva del conflitto. Allorquando una persona ci fa presente di avere un problema con noi (oppure di avere un problema con altri, come spesso accade quando si rivolgono a noi per un aiuto), rispondergli che tale problema ‘per noi’ non esiste è una grave superficialità. Le relazioni così si deteriorano, anche se sul momento tutto sembra andar bene, e i problemi tendono a peggiorare e a trasformarsi in conflitti. In pratica risulta molto più costruttivo riconoscere subito l’esistenza dei problemi invece di negarli o di discuterne l’oggettiva esistenza, tenendo ben presente però che riconoscere non vuol dire essere d’accordo.

    A partire da questo riconoscimento (che, da notare, è in sostanza il riconoscimento dell’altro, del suo vissuto, della sua esperienza -vedi cioè tutto il discorso sull’accettazione), nel processo della comunicazione la percezione del problema si trasformerà trasformando il problema stesso e l’eventuale conflitto.

    Percezione di problemi e problemi di percezione.

    La vita è una cosa meravigliosa, o una valle di lacrime? La nostra percezione della realtà gioca un ruolo centrale nella genesi e nella risoluzione dei problemi e dei conflitti che viviamo, tanto da poter affermare che il cambiamento di percezione è un obiettivo fondamentale nella gestione costruttiva dei conflitti. Il cambiamento di percezione consiste nel cambiare il proprio e/o l’altrui punto di vista rispetto a una determinata situazione fino a vedere le cose in modo significativamente diverso da prima (il processo che porta a tale risultato viene in genere chiamato ‘ristrutturazione cognitiva’).

    Sul cambiamento di percezione vedi “Change”, di P. Watzlawick e altri, edito dalla Ubaldini, che seppur datato (e non a caso molto ristampato) rimane un testo agile e straordinariamente ricco per la comprensione di questo processo, da loro chiamato “ristrutturazione cognitiva”, che svolge un ruolo centrale nella risoluzione dei conflitti. Di grande interesse e utilità anche ‘Arte di ascoltare e mondi possibili’, di Marianella Sclavi, edito da Le vespe.

    La percezione dipende da molti fattori. Tra questi, per il discorso che stiamo facendo, riveste particolare importanza la nostra concezione della realtà, cioè le idee e le opinioni che ci siamo costruiti circa la realtà. Per esempio è frequente osservare che una volta che ci siamo fatti un’idea ‘su’ di una persona (positiva o negativa che sia) nella relazione con essa tendiamo poi a percepire tra le tante cose che essa dice e fa solo quelle che confermano la nostra idea di partenza. Finché non accade qualcosa che svela il pregiudizio è difficile rendersi conto di questo fenomeno. Così accade che chi è cresciuto in una cultura razzista, o maschilista, tende a vedere veramente la propria superiorità e l’altrui inferiorità come un fatto naturale. Ai suoi occhi la cosiddetta ‘realtà dei fatti’ non farà altro che confermargli quella opinione, anche di fronte alle prove più evidenti. Insomma, ciò che chiamiamo realtà è qualcosa che si può manipolare con grande facilità, anche in buona fede, per cui va a finire che si vede ciò che si è abituati a vedere, o ciò che si vuol vedere! Ecco perché è così difficile (far) cambiare idea e perché la forza della ragione da sola non basta: bisogna toccare il cuore se si vuole operare un cambiamento profondo, efficace.

    Gandhi afferma di aver cominciato a capire e praticare la nonviolenza nel momento in cui si rende conto che per ottenere cambiamenti significativi non basta toccare la ragione, ma bisogna toccare il cuore delle persone, e come ciò comporti inevitabilmente una disponibilità sincera a soffrire, cosa possibile solo attraverso le qualità dell’amore (vedi Gandhi, op. cit. nel capitolo ‘cos’è la nonviolenza’).

    8. COMUNICARE PER GESTIRE

    In un primo momento siamo sempre noi, consapevoli o meno, a percepire e valutare di avere un problema. Poi, se non siamo soli, inevitabilmente comunicheremo agli altri quello che percepiamo. Così nella relazione i problemi vengono trasformati, costruiti e ricostruiti, risolti o ingigantiti, attraverso il processo della comunicazione. La gestione della dimensione sociale del conflitto è quindi un processo che si attua attraverso la comunicazione, tanto da poter dire che comunicare è gestire

    . Il verbo gestire potrebbe sembrare presuntuoso, ma il concetto di gestione qui proposto coincide con l’aspetto pragmatico della comunicazione umana, cioè tutto quello che in una determinata relazione viene detto e fatto (e quindi anche non detto e non fatto), nonché il modo in cui ciò avviene. Quindi, se è vero (come le leggi della comunicazione insegnano) che in una relazione è impossibile non comunicare, allora è pure vero che è impossibile non gestire un conflitto. Da questo punto di vista noi sempre e comunque gestiamo i conflitti che ci coinvolgono, anche se in gran parte non ce ne rendiamo conto. Questo vuol dire che abbiamo sempre una responsabilità rispetto al miglioramento o al peggioramento delle nostre relazioni con gli altri, con noi stessi, con la società, con la vita. Per il semplice fatto che esistiamo e che con la nostra esistenza diamo vita a una relazione, noi abbiamo un potere in quella relazione, un potere che non controlla mai il tutto, ma nemmeno scompare mai del tutto. Il fatto di usare inconsapevolmente questo potere non diminuisce i suoi effetti negativi, anzi li aumenta fortemente, tanto da poter dire che è proprio nella misura in cui ne diveniamo consapevoli che possiamo cominciare a limitare i danni e a costruire relazioni sane attraverso il nostro modo di comunicare.   Il concetto di comunicazione cui qui ci riferiamo è quello presentato nella fondamentale opera “Pragmatica della comunicazione umana”, di P. Watzlawick e altri, ed. Ubaldini. Da ciò deriva la grande utilità e diffusione delle cosiddette tecniche di comunicazione (efficace, costruttiva, nonviolenta, ecologica, ecc); vedi per es. T. Gordon “Genitori efficaci” ed. La meridiana, o “Insegnanti efficaci”  ed. Giunti Lisciani; L. Rosenberg “la comunicazione nonviolenta” ed. Esserci; J. Liss “La comunicazione ecologica”

    , ed. La Meridiana.

    9. TRASFORMAZIONE E RISOLUZIONE DEI CONFLITTI

    “Il medico cura, la natura guarisce.” Oggi si tende ad usare sempre più la terminologia anglosassone conflict management, o conflict transformation, al posto di conflict resolution . In pratica hanno lo stesso significato, ma probabilmente c’è un’accresciuta consapevolezza che il concetto di risoluzione può essere fuorviante: noi, da soli, possiamo solo gestire il conflitto, mai risolverlo,esattamente come il medico ha il potere di curare, ma non quello di guarire, per quanto potente sia la sua medicina.

    Attraverso un esempio di vita ordinaria proviamo a riassumere la dinamica della gestione positiva dei conflitti per vedere cosa può voler dire trasformare e risolvere un conflitto.

    I nostri attori (chiamiamoli Anna e Bruno, soci che gestiscono un’attività di servizi), di fronte a un problema (come arredare l’ufficio) durante la discussione si arrabbiano e litigano scambiandosi reciproche accuse (in base alla nostra mappa il problema si è trasformato in conflitto).   Anna (che ha alle spalle una formazione alla nonviolenza) durante la pausa pranzo riconosce la situazione conflittuale e comincia a lavorare in modo costruttivo sulla sua rabbia e frustrazione (gestione del disagio). Dopo un po’ riesce a calmarsi, a ritrovare fiducia e a percepire sia Bruno sia la situazione sotto un’altra luce. Abbiamo così che una delle parti in conflitto ha gestito efficacemente il proprio disagio e quindi ha ottenuto una trasformazione del conflitto a livello personale (ricordiamoci la distinzione fatta all’inizio tra la dimensione personale e quella sociale del conflitto), per cui rabbia e frustrazione sono state indebolite, o forse sono scomparse, e ora c’è la chiara percezione del problema concreto da risolvere (le scelte inerenti l’arredamento). Dunque Anna ora si sente pronta a incontrare Bruno. Ma Bruno come sta?

    Bruno, che ha dovuto pure saltare il pranzo per motivi di lavoro, è invece ancora risentito: in lui ci sono irritazione, pensieri negativi sulla situazione e su Anna, e forse anche su di sé. Dunque ci troviamo di fronte a una situazione asimmetrica, come normalmente accade: una delle parti ha trasformato positivamente il disagio a livello personale, mentre l’altra no, per cui a livello sociale il conflitto persiste ed è ancora tutto da gestire. E sappiamo bene che sino a quando anche solo una delle parti in conflitto non avrà efficacemente gestito il suo disagio continuerà a scaricarlo in qualche modo nella relazione con l’altro (e/o col mondo circostante), creando a tal fine pretesti e falsi problemi – falsi, ma non per questo meno dolorosi e pericolosi.  A questo punto se Anna vuole affrontare il problema concreto dovrà prepararsi a fare inevitabilmente i conti col disagio di Bruno: questo in pratica significa riuscire a riconoscere e accettare quel disagio, cioè accettare Bruno ‘come è’. Questa implicazione della gestione positiva dei conflitti è dura da afferrare, ancor più da digerire: oltre a saper gestire bene il mio disagio, cosa già di per sé impegnativa, in qualche misura devo anche saper aiutare l’altro a gestire il suo disagio.

    È una cosa difficile e delicata, sulla quale si ha un potere certamente limitato, ma pure tanto importante. Ora si può capire meglio perché è fondamentale saper gestire positivamente il disagio a livello personale: chi riesce a gestire bene il proprio disagio si trova nelle condizioni migliori per “tentare” di trasformare e risolvere costruttivamente il conflitto anche nella sua dimensione sociale. E diciamo “tentare” perché il risultato a livello sociale della gestione dei conflitti dipende da tutte le parti coinvolte. Come dire: se per costruire la pace l’altro è ineliminabile, allora esso è indispensabile – ed è utile ricordarsi che “l’altro, siamo noi”.  Aiutare l’altro a gestire il suo disagio non richiede spirito di abnegazione, né l’essere terapeuti: nella misura in cui riesco ad accogliere sinceramente il disagio dell’altro, ad ascoltarlo (cosa che implica il non farmi travolgere dall’onda emotiva della sua rabbia, disperazione, dolore), di fatto lo sto aiutando. Quando ci sentiamo così riconosciuti accade sempre qualcosa di positivo, di sano, di curativo, il che non significa non sia doloroso. E la cosa non stupisce se ci ricordiamo che accettazione è solo un altro nome dell’amore.

      Tornando al nostro esempio, immaginiamo che Anna riesca appunto a mostrare un sincero ascolto nella fase iniziale dell’incontro con Bruno, e magari anche a chiedere scusa per le parole dure dette in precedenza. Bruno comincia a distendersi e un po’ alla volta riesce pure lui a recuperare quel po’ di fiducia che poi lo mette in grado di gestire bene il suo disagio (e in ciò possiamo supporre che sia stato facilitato dall’atteggiamento amichevole manifestato da Anna alla ripresa del dialogo – attenzione, non stiamo parlando di un atteggiamento di controllata e superiore calma, di ostentata gentilezza, cose che generano effetti completamente diversi).Ecco allora che, secondo il nostro approccio, possiamo dire che il conflitto è stato positivamente trasformato anche nella sua dimensione sociale, per cui ora le parti si trovano in una condizione più favorevole per affrontare e risolvere insieme il problema concreto. In questo nuovo stato della relazione (che potremmo chiamare di pace, visto che la pace, come il conflitto, è uno stato della relazione), i nostri eroi possono “tentare” di risolvere insieme il loro problema. A questo punto infatti potrebbero usare con profitto delle tecniche di problem solving (sapendo però che durante il processo il disagio potrebbe nuovamente alzarsi e richiedere un’altra volta maggiore attenzione rispetto al problema). Il verbo “tentare” rimane perché non tutti i problemi possono essere risolti qui e ora come vorremmo . Anzi, solo un’intelligente e fiduciosa accettazione consente di vivere in pace, più positivi e vitali, in un presente a volte pieno di problemi e difficoltà.

    L’importanza di questo esempio, molto semplice, riferito a un caso di conflitto in ambito cooperativo e con un potere delle parti sostanzialmente equilibrato, sta nel fatto che possiamo trarre alcune importanti conclusioni che sembrano valere per qualsiasi tipo di confitto, ovvero: la gestione positiva del disagio (cioè la gestione positiva della dimensione interiore del conflitto, che è ciò su cui abbiamo il massimo potere)

  • può “garantire” la trasformazione del conflitto a livello personale (pace personale);
  • non può mai “garantire” la trasformazione del conflitto a livello sociale (pace sociale);
  • non può mai “garantire” la risoluzione dei problemi a livello sociale; costituisce la base più forte ed efficace per poter trasformare e risolvere costruttivamente i problemi e i conflitti a livello sociale, perché consente di utilizzare al meglio le risorse disponibili di creatività e intelligenza che vengono fortemente menomate dalla presenza di stati emotivi negativi.  In ambiti di tipo competitivo, e soprattutto quando c’è un forte squilibrio di potere tra le parti, le cose sono assai più complicate e bisognerebbe allora aprire il discorso sulla forme di lotta nonviolenta o satyagraha.  Per i vari tipi di trasformazione nonviolenta dei conflitti, dalla conversione al compromesso positivo, fino alla coercizione nonviolenta, vedi la fondamentale opera curata da G. Sharp, direttore del Program of Nonviolent Sanctions in Conflit and Defense della Harvard University,  “Politica dell’azione nonviolenta” (tre volumi), Ed. Gruppo Abele, in particolare il terzo volume nella parte riguardante le diverse possibilità di risoluzione nonviolenta del Conflitto. Su tali considerazioni si fondano anche gli approcci di mediazione dei conflitti (a livello famigliare, sociale, aziendale, ecc) e in merito segnalo “Prospettive di mediazione ”, a cura di M Bouchard e G. Mierolo, EGA. e “Gestione dei confitti e mediazione”, di C. Besemer, EGA.
  •   Il verbo “garantire” è messo in evidenza perché esprime assai bene il desiderio diffusissimo e la radicata convinzione di poter trovare tecniche o metodi “sicuri” che risolvano “presto, definitivamente e senza dolori” ogni conflitto, ogni problema, ogni disagio, ogni male. Questa sorta di mito di onnipotenza, che ricerca e propaganda la sicurezza assoluta (salute sicura, lavoro sicuro, guadagni sicuri, città sicure, rapporti sicuri…), implica necessariamente l’uso della violenza e, purtroppo, si apprende e si trasmette inconsapevolmente. Superare tutto ciò non è affatto facile, ma certamente è possibile.

 

Strati di risoluzione dei conflitti

Traduzione da https://curlybracket.net/2020/02/25/conflicts-workplace.html

Proverò a descrivere brevemente i modi di guardare ai conflitti.

Quando si lavora su un conflitto, in genere sono coinvolti tre livelli: passato, presente e futuro:

Il passato. Che è successo? Quando in passato è accaduto qualcosa di doloroso o illecito, questo strato richiede risarcimento e / o conciliazione, ovvero restituire qualcosa che è stato preso, pagare una multa, scusarsi o semplicemente che entrambe le parti riconoscono i fatti – o il male – che sono stati causati .


Il presente. Dove siamo noi, le parti in conflitto, in piedi adesso, dov’è il nostro equilibrio? A questo livello possiamo cercare un compromesso attraverso la negoziazione e la comunicazione.


Il futuro. Come vogliamo (non) interagire in futuro? Per imparare dal conflitto, le parti in conflitto devono impegnarsi in un processo di trasformazione.

Quando pensi a un conflitto che hai risolto negli ultimi mesi o anni, fino a che punto sono stati coinvolti questi tre strati?

Probabilmente arriverai alla conclusione che tutti e tre erano coinvolti, ma non necessariamente nella stessa misura. Se la compensazione / conciliazione non ha luogo, non possiamo operare sul livello che coinvolge il presente e ancor meno sul livello che coinvolge la trasformazione futura.


Conflitto come processo

Le persone in genere affrontano i conflitti come se affrontassero un problema con la propria auto: vogliono risolverlo tramite il parere di un esperto. Qualcosa non va, per favore ripara il problema. “Kim non è contento di averli assegnati a un altro compito con una retribuzione inferiore. Assumiamo una persona che possa” convincere “Kim dei vantaggi del nuovo lavoro.”

Altre volte le persone pensano che il conflitto possa essere solo colpa di una delle persone coinvolte in esso, e attribuiscono alla persona tutti i tipi di cattivi tratti caratteriali che possono essere ammorbiditi solo attraverso tecniche di rilassamento o risolti attraverso la terapia (1). “Toni è così frustrato tutto il tempo, dovrebbero davvero imparare qualche pensiero positivo e fare più yoga in modo da non disturbare tutti con il loro cattivo umore al lavoro.” O “Jawad ha una depressione, ignoriamo la sua negatività.”

Ma c’è qualcosa tra:

PERSONA → PROBLEMA

Nel mezzo c’è una relazione o un processo: in che modo le persone si relazionano ai problemi?

Non c’è giusto o sbagliato in questo in mezzo tra persona e problema, perché questa relazione è sempre solo soggettiva: come faccio io come persona a relazionarmi al problema, come lo capisco, dove mi trovo riguardo a questo problema ? Quali sono le mie esperienze, i miei fattori scatenanti, i miei valori, i miei confini?

Esistono molti modi diversi di gestire questo processo, solo uno di questi è la mediazione. In alcune situazioni, altre possibilità possono essere più appropriate: ad esempio coaching, supervisione, formazione alla leadership, consulenza legale o persino misure legali.


Conclusione

Quando sorge un conflitto sul posto di lavoro, assicurati di chiedere e ricercare se potrebbero esserci uno o più problemi strutturali sottostanti che potrebbero aver portato a questo conflitto.

(1) È molto importante distinguere un vero problema di salute mentale come la schizofrenia, il disturbo bipolare, come solo due esempi, dai comportamenti che non ci piacciono nelle altre persone. I problemi di salute mentale potrebbero essere al centro di un conflitto o di una relazione disfunzionale al lavoro. Tuttavia, diagnosticare una persona con un qualche tipo di problema di salute mentale è spesso usato come un modo per respingere le loro critiche, il loro modo di esprimere un’opinione o come un modo per zittirle.

Regola empirica: se non sei il loro medico, ma devi lavorare con loro, ti preghiamo calorosamente di consultare un medico esterno – o anche legale – .